Giovanni Morelli, Pioggia, china, 1967/68 ca.


Pensieri per Giovanni

Federico Fornoni | 14 gennaio 2021


Il fatto è che il ‘pubblico’ ha assaporato il gusto della paura psicogeneticamente fondata, la paura interna, la paura libera, la paura della libertà, quella paura che si è liberi di provare se e quando ci si inoltra, ‘nella fessura aperta sul fianco dell’essere’ e che trova soltanto chi, individualmente, con intensità gradualmente crescente, approfondisce una delirante credenza di misconoscimento del ‘vero mondo’ dei persecutori dell’individuo. Ed è stata forse Lucia l’opera che ha donato ai pubblici europei questa esperienza in forma coerente e piena, candidandosi a divenire un exemplum neo-folclorico. […]

(Giovanni Morelli, La scena di follia nella «Lucia di Lammermoor»: sintomi, fra mitologia della paura e mitologia della libertà , in La drammaturgia musicale, a cura di Lorenzo Bianconi, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 427


In queste righe Giovanni Morelli afferra con lucidità la chiave che apre la concezione drammaturgica di Lucia di Lammermoor, ponendo al centro dell’argomentazione lo scavo interiore sul personaggio e individuando, allo stesso tempo, i suoi effetti sul fruitore e le conseguenze sulla società. Il tutto concentrandosi su un «mito-sentimento», quello della «paura», che ancora oggi continua e essere sporadicamente associato a questo repertorio.

La lettura dell’opera lascia infatti emergere un quadro cupo, in grado di scuotere le sensazioni dello spettatore. Pur inserendosi all’interno di una floridissima tradizione letteraria, teatrale, operistica di pazze per amore, Lucia se ne distingue per l’efferato delitto compiuto ai danni del novello sposo. Né Arturo è il solo a morire: Lucia esibisce in pubblico i sintomi che di lì a breve la condurranno alla tomba; Edgardo si suicida in scena con un gesto di estrema violenza sanguinaria, conficcandosi un pugnale nel cuore, mentre l’intonazione della ripresa della cabaletta enfatizza l’agonia del moribondo con il suo procedere singhiozzante e la funzione preminente dello strumentale. Morti truculente che vibrano insieme a tanti altri elementi intesi a collocare l’opera in un contesto orrorifico: il fantasma, le rovine, il cimitero, l’ambientazione notturna.

Vi è poi, naturalmente, la follia di Lucia. Su questo terreno, secondo Morelli, si gioca interamente la partita della paura e, aggiungiamo noi, dell’orrore; quella paura personale, individuale, psicogenica e libera, dunque ‘interna’, di cui si parla nel passo citato in apertura. Donizetti, nell’affrontare il delicato rapporto fra esteriorità e interiorità dell’orrore, punta l’attenzione sulle modalità di rappresentazione della follia, unica e propria della protagonista. Entrambe le arie del soprano, cavatina e, appunto, scena di follia, mostrano una frantumazione del discorso musicale (formale, tonale, melodica) che lascia affiorare un personaggio intimamente deforme. Deformità nella quale risiede la qualità propriamente orrorifica di Lucia. Un ruolo importante in questo senso è giocato dalla caratterizzazione timbrica assicurata dall’armonica a bicchieri. Lo strumento conobbe una certa diffusione fra Sette e Ottocento. Gli erano attribuite due peculiarità: anzitutto la propensione a veicolare la dimensione ultraterrena, trascendente, che si giovava di un immaginario teso a legare l’armonica ad apparizioni spettrali; in secondo luogo la relazione con stati patologici: fisici e mentali. La sonorità penetrante ed evanescente dello strumento era ritenuta agire sul sistema nervoso, provocando spasmi, affaticamento, perdita dei sensi, ma operando anche a livello inconscio. Avrebbe perciò indotto irritabilità, malinconia, alienazione e finanche stati di panico. Era dunque in grado di provocare sull’ascoltatore conseguenze personali.

Questi fattori sono proprio quelli che ricorrono nella scena di pazzia, da un lato incentrata su una messa a fuoco evidente ed esteriore dell’orrore – l’omicidio, le sembianze spettrali, il morto che torna dalla tomba –, dall’altro sulla lacerazione intima, precipua di Lucia, in quanto essere sensibile e unico. In questo senso l’armonica sembra porsi come alter ego della protagonista. È strumento il cui timbro etereo identifica il distacco dal mondo, evocando fantasmi, e al contempo strumento connotante ipersensibilità. È dunque l’anello di congiunzione fra elemento orrorifico ‘esteriore’ e l’orrore personale di Lucia. Questa era l’interpretazione che il pubblico del 1835 avrebbe potuto dare sulla base della propria conoscenza dell’armonica. La sostituzione col flauto attenuò queste implicazioni, impoverendo il messaggio drammatico e indebolendo l’effetto sonoro sullo spettatore.


Ascolto proposto:

>>> Gaetano Donizetti, «Il dolce suono», da Lucia di Lammermoor

Sin dalla prima rappresentazione dell’opera, la parte concertante nella scena di pazzia venne affidata a un flauto, soluzione poi divenuta di prassi, probabilmente anche in virtù della sua comodità. Grazie alle ricerche condotte per approntare l’edizione critica curata da Roger Parker e Gabriele Dotto, è emerso che la sostituzione avvenne per motivi contingenti e non per una scelta musicale. Oggigiorno, sempre più spesso, i teatri scelgono di ricorrere alla versione originaria, come avviene in questo allestimento del Teatro Real di Madrid con Lisette Oropesa. (Federico Fornoni )

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